Lui ama definire la sua, una cucina della memoria. Una memoria che affonda le radici non solo nella storia gastronomica italiana, ma anche -e più intimamente- nella tradizione culinaria della sua famiglia che da quattro generazioni si occupa di ristorazione. A Roma si trovano due avamposti del buon gusto che a lui fanno capo: uno è il ristorante l’Arcangelo e Supplizio, tempio del cibo di strada in via dei Banchi vecchi. Abbiamo scambiato con Arcangelo due chiacchiere, eccole qui di seguito.
Cosa intendi per cucina della memoria?La definizione racchiude due spiegazioni, entrambe importanti. La prima riguarda la storia della mia famiglia: immagina che mia nonna è nata nel 1906 e che sua nonna lavorava già nella ristorazione, praticamente siamo con le mani in pasta dal 1800. E poi c’è il significato di memoria legato all’aspetto sensoriale, oserei dire “meccanico”, per cui di fronte ad alcuni sapori la nostra testa ci riporta a ricordi e sensazioni indissolubilmente legati alla lingua, ai sapori, alle emozioni di un piatto. Niente di nuovo, s’intende, perché in qualche modo ripenso alle parole di Proust e della sua Madeleine o alla semantica della Pienezza di Seneca.
Spiegati meglio…Il cibo della memoria è quell’odore che ci travolge e ci stravolge improvvisamente, inevitabilmente, che ci riporta indietro nel tempo, negli angoli più remoti del nostro passato, facendoci ripercorrere attimi intrisi di gioia, ricordi di un’infanzia o di un episodio particolare della nostra vita. E a parte questo “effetto di viaggio” che il cibo provoca, mi piace sottolineare sempre il significato di linguaggio del cibo stesso.
Hai scritto – tra gli altri – un libro sulla cucina ebraico-romanesca. Ce ne parli?Dal punto di vista antropologico è un discorso bello e complicato allo stesso tempo. Talvolta quando si parla di cucina romana, si pensa solo a una parte limitata che inizia alla fine dell’Ottocento. Ma in realtà bisognerebbe studiarla sin dalla cucina imperiale. Partendo magari dal De re Coquinaria di Marco Gavio Apicio, o dal De Hortis di Quinto Gargilio Marziale, senza tralasciare Trimalcione: esistono tantissime testimonianze delle pietanze e dei pranzi che questi signori preparavano. E solo dopo passare alla cucina romana che affonda le sue radici nella comunità ebraico-romana che, non bisogna dimenticarlo, vive nella capitale da centosettanta anni prima di Cristo.
Nei tuoi menu, quindi, porti traccia di questa storia. Cosa faresti assaggiare a un tuo ospite per farsi un’idea di tutto questo?Sicuramente qualcosa di semplice. Io sono uno che ama molto il prodotto, più che la ricetta. Quindi non avrei problemi a servire una patata lessa delle piane di Leonessa con un filo d’olio e del sale dolce di Cervia. Certo sarebbe solo l’inizio di un viaggio gastronomico in cui si prende per mano (e per la pancia) il proprio ospite e lo si conduce lontano, in un luogo fisico o ancora meglio dei ricordi. Il viaggio lo si può compiere grazie a un sapore, a un abbinamento, ma secondo me componente creativa e storicità della ricetta sono ingredienti indispensabili in un piatto. Il protagonista deve comunque rimanere il cibo, non la cucina.
A proposito di protagonisti, quanto lo è l’orto nella tua cucina?È fondamentale. Io non utilizzo prodotti che non siano di stagione. Ti prego di non enfatizzare il fatto che io ogni giorno vado a fare la spesa in prima persona (io rido n.d.a.). Certo capita e mi piace pure, ma io sono anche un imprenditore gastronomico e se stessi fuori ogni giorno, chi penserebbe a portare avanti la cucina dl ristorante? Ho i miei fornitori che conoscono bene le mie esigenze e sono loro a portarmi i prodotti che mi servono. L’orto quindi è un punto di partenza fondamentale.
Quando hai capito davvero che la cucina sarebbe divenuta il tuo luogo di lavoro e ispirazione?Racconto i miei inizi in “Memoria a mozzichi”, il libro che scrissi nel 2011 con Berta Bettozzi e anche nel mio secondo libro “Animelle” che poi è un diario di tre anni in cui ricordo il momento esatto in cui ho sentito la mia vocazione. Infatti anche se tutta la mia famiglia è nel settore da anni, quando sentii la mia chiamata era un momento particolare, avevamo quasi abbandonato la strada. Mio padre faceva il consulente in giro e io frequentavo l’università. Poi un bel giorno, il 23 marzo del 1980, sono andato a bussare alla porta del ristorante Richelieu di via Frascati Colonna (non esiste più n.d.a.). Chi mi aprì mi disse che c’era posto e mi indicò la plonge (nei ristoranti è lo spazio adibito al lavaggio delle stoviglie n.d.r.), avevo diciannove anni e non esitai un attimo. Poi da lì cominciai a fare il lavapiatti, cantiniere, il cameriere, il cuoco e così via. Ho fatto tutto e in prima persona.
La Carbonara è un piatto maltrattato e malamante intepretato in tutto il mondo, ma qual è il suo segreto?Il discorso è semplice e complesso allo stesso tempo. Ci sono ricette come queste che non hanno un cuoco dietro che le ha inventate. E la dove non c’è un cuoco ma un’interpretazione, il racconto popolare di un piatto che si tramanda diventa troppo vario, poco definito. Non esiste una codifica. Credo senza falsa modestia che io sono uno di quelli che ha dato molto in tal senso. Per esempio sono uno dei primi ad aver tolto l’albume. D’altronde questo è un piatto spropositatamente proteico… pensa all’uovo, al guanciale, al pecorino e una volta addirittura anche la polvere di latte che gli americani durante la guerra aggiungevano per ammorbidire il tutto (questo spiegherebbe perché qualcuno ancora oggi aggiunga la panna). Insomma ha poco di mediterraneo, sembra trovare radici altrove. Quindi togliendo l’albume, l’idea è quella di rispettare il quadro organolettico del piatto, rendendola però più digeribile. Il segreto è quello che hanno capito anche i bambini: l’aggiunta dell’uovo va fatta a freddo, dopo gli ottantadue gradi le proteine dell’uovo cominciano a coagularsi… cioè si fa la frittata. Il vero segreto è l’utilizzo di materie prime eccellenti. Il pecorino poi va grattugiato al momento. E poi oltre all’albume ho anche tolto il pepe. Secondo me è una nota amara che secondo me è fuori luogo.
E riguardo la storia?Beh… come ti dicevo questo è uno dei piatti più controversi della storia dell’umanità. Attorno alla Carbonara ci sono troppe leggende per darne una definizione univoca. Si possono però fare delle considerazioni storiche. Secondo me può essere stato concepito solo da un popolo che a colazione mangia uova e bacon: gli americani (come scriveva già il New York Times qualche anno fa). Ti spiego meglio. Personalmente nella mia famiglia non si è parlato di Carbonara se non a partire dagli anni Cinquanta. Come ti ho detto mia nonna era cuoca e sua nonna, cuoca come lei, non aveva nessuna memoria di questo piatto. Tutti dicono che la Carbonara è di Roma… ma dove è scritto? Leggendo i “testi sacri” della cucina italiana, come Livio Jannattoni, Francesco Leonardi, Guido Cavalcanti, Bartolomeo Scappi o il Talismano della felicità di Ada Boni degli anni 30, questo piatto non viene proprio menzionato -lì viene citata solo la Cacio e Pepe, che ha origini napoletane-. Sembra quindi accreditabile la teoria degli americani che per arrivare a Cassino attraversarono l’Abbruzzo e Ciociaria e modificarono la Gricia, aggiungendo il guanciale, scambiandolo per la loro pancetta. Insomma la Carbonara non sembra proprio essere un piatto tradizionale romano, ma una contaminazione piuttosto recente di tradizione montanara laziale con lo zampino degli americani. Mia nonna e mia bisnonna sono state testimoni dirette del fatto che prima del passaggio degli americani a Roma nessuna conosceva la Carbonara. Quello che dico io è sicuramente opinabile, ma chiedo con ostinazione di portarmi un riferimento, un testo o una storia che possa dire il contrario.
C’è un tuo piatto particolare dove reputi la Natura al centro del piatto?Sono felice che mi abbia posto questa domanda. Pensandoci bene il cibo è natura. Nel senso più stretto del termine. Poi c’è l’uomo che interviene nelle preparazioni e nella trasformazione. È chiaro che senza l’uomo non sarebbe stato possibile neanche valorizzare tutte le potenzialità di ciò che la Natura stessa ci offre, basti pensare al vino… per dirne una. C’è un piatto che preparo, al dire il vero molto personale, in cui c’è dentro molta Natura e che si chiama “Viaggio a Roccapriora” (Che è il luogo dove sono nato). Te lo racconto proprio perché è un “viaggio” in cui metto molta natura. Parto da un uovo preparato in camicia, che faccio quindi cuocere in acqua e aceto. Aggiungendo una nota aromatica di Sambuco. Poi aggiungo una mescola che preparo a base di liquirizia, cannella e cumino. E metto sopra delle erbe spontanee che mi porta un mio raccoglitore che fa spesso giri tra Roma e Viterbo. Sono di grande valore, non solo dal punto di vista organolettico, come il Caccialepri, il Tarassaco, il Dente di Cane o la Barba di finocchio selvatico. Sono due o tre erbe massimo. Finisco questo piatto con un filo d’olio extravergine e del polline, che reputo una delle mie attitudini naturali sin da bambino (l’apicoltura è stata la mia prima passione). E poi aggiungo una granella di nocciole e mandorle. Un piatto totalmente vegetariano se vogliamo. Ha dentro i paesaggi e i sapori che ho vissuto sin dalla mia infanzia. È quindi un viaggio a tutti gli effetti nella Natura e sensoriale.
Ci parli di Supplizio, il tuo locale dedicato al cibo di strada?Lì prepariamo, come dice il nome stesso, cibo di strada. Io lo racconto come cibo italiano. Nel senso che non cuciniamo solo cibo romano, solo supplì per intenderci, ma preparazioni di tutta la Penisola come la frittata di maccheroni, le insalate, le centrifughe, stiamo guardando anche al cibo vegetariano, prepariamo il baccalà in due versioni, fritto ma non in pastella ma un floccato di mais molto croccante. Ma facciamo anche le minestre e una marea di altri cibi di strada tipici di diversi luoghi del nostro Paese. Tutti piatti che hanno nelle corde il viaggio, il tragitto, il camminare, l’andare… il visitare altri luoghi tramite i sapori e le sensazioni.
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